Notturno
L'aggettivo evoca un che di fascinoso e risuona nella mia testa come qualcosa di avvolgente, persistente e che pervade tutto, come il buio, come la passione, come i risvolti più sordidi delle paggiori immaginazioni.
Quando segue la parola "bar", il senso dentro di me vira leggermente e le immagini che richiama sono di un bianco e nero felliniano, di umanità che si mescola in tentativi goffi e che si fa raccontare per quello che è; altre volte poi mi viene in mente il turno di notte che non ho mai fatto, l'inizio del lavoro, d'inverno, quando un caffè corretto è tutto il necessario a battere il freddo pungente e la nebbia.
Poi di colpo la pellicola si inceppa su un fotogramma sfuocato, secondi di attesa e poi ci sono io, a colori, assonnato, in partenza per la montagna, è domenica mattina e ho bisogno di un caffè. Entro, al banco avventori che parlano del senso della vita, presumibilmente sono lì da qualche giorno e nella saletta altri clienti festosi; sul tavolino vedo bottiglie da 66 di birra, quella per placare la sete di una notte di folli rincorse e tutt'intorno voci sovrapposte in una lingua che non è mia. Il barista, nascosto dietro le sue occhiaie, mi parla del calo della temperatura, io annuisco. Guarda la mia curiosità per chi ha fatto tardi, per chi beve birra invece di caffè, per chi è ancora in piedi, non già. Guarda e forse fraintende perchè nel tempo di un sorso dalla tazzina, mi dice: "vuoi trombare?" Rimango fermo, cercando di nascondermi dietro la tazzina. Inutile. Scatena il suo piano infallibile e chiama con una scusa una delle ragazze del tavolo da 66, si capisce che si conoscono bene, la chiama "bionda!" e lei arriva, direttamente dietro il bancone. Comincia un lungo racconto, che sa di inciso, di parentesi aperta e chiusa tra due cose importanti, un racconto, dicevo, della vita di questa ragazza che vuole lavorare dietro al banco, che sa fare quel lavoro perchè lo fa da una vita e lo si capisce perchè mentre lo dice si accarezza le tette, mentre sposta con dolcezza le mani del barista dal suo culo, che con insistenza continua a frugare in quella terra di nessuno tra la cintura dei jeans e il bordo inferiore del maglione.
Fortunatamente ho già pagato la mia consumazione e niente più mi lega a quel posto, se non, ora, il ricordo viscido di una sfumatura nuova dell'aggettivo notturno.
Esco e fuori l'aria è fredda.
Quando segue la parola "bar", il senso dentro di me vira leggermente e le immagini che richiama sono di un bianco e nero felliniano, di umanità che si mescola in tentativi goffi e che si fa raccontare per quello che è; altre volte poi mi viene in mente il turno di notte che non ho mai fatto, l'inizio del lavoro, d'inverno, quando un caffè corretto è tutto il necessario a battere il freddo pungente e la nebbia.
Poi di colpo la pellicola si inceppa su un fotogramma sfuocato, secondi di attesa e poi ci sono io, a colori, assonnato, in partenza per la montagna, è domenica mattina e ho bisogno di un caffè. Entro, al banco avventori che parlano del senso della vita, presumibilmente sono lì da qualche giorno e nella saletta altri clienti festosi; sul tavolino vedo bottiglie da 66 di birra, quella per placare la sete di una notte di folli rincorse e tutt'intorno voci sovrapposte in una lingua che non è mia. Il barista, nascosto dietro le sue occhiaie, mi parla del calo della temperatura, io annuisco. Guarda la mia curiosità per chi ha fatto tardi, per chi beve birra invece di caffè, per chi è ancora in piedi, non già. Guarda e forse fraintende perchè nel tempo di un sorso dalla tazzina, mi dice: "vuoi trombare?" Rimango fermo, cercando di nascondermi dietro la tazzina. Inutile. Scatena il suo piano infallibile e chiama con una scusa una delle ragazze del tavolo da 66, si capisce che si conoscono bene, la chiama "bionda!" e lei arriva, direttamente dietro il bancone. Comincia un lungo racconto, che sa di inciso, di parentesi aperta e chiusa tra due cose importanti, un racconto, dicevo, della vita di questa ragazza che vuole lavorare dietro al banco, che sa fare quel lavoro perchè lo fa da una vita e lo si capisce perchè mentre lo dice si accarezza le tette, mentre sposta con dolcezza le mani del barista dal suo culo, che con insistenza continua a frugare in quella terra di nessuno tra la cintura dei jeans e il bordo inferiore del maglione.
Fortunatamente ho già pagato la mia consumazione e niente più mi lega a quel posto, se non, ora, il ricordo viscido di una sfumatura nuova dell'aggettivo notturno.
Esco e fuori l'aria è fredda.