A occhi chiusi
Partiamo come altre sere avevo fatto, lasciando la pianura nell'ora di punta, quando la gente è in macchina per tornare a casa dopo il lavoro; noi con sci e pelli siamo diretti a sud, oltrepò, dove il piatto dell'orizzonte cerca di impennarsi un poco, a simulare montagne.
Andiamo verso una cima che quando è sereno ti affaccia sul golfo del tigullio, andiamo a cercare neve vicina, vicino a casa. Lungo la strada il buio aumenta con il passare del tempo e il diminuire dei lampioni, siamo in zone poco abitate dove le luci più frequenti sono quelle delle cucine di case isolate che proiettano rettangoli di giallo sull'asfalto. Arriviamo alla neve, improvvisa, dietro ad una curva, polverosa e leggera, mossa dal vento e distribuita attorno. Parcheggiato, ci prepariamo in fretta e affondiamo nei mucchi di farina riportata dal vento cominciando a godere per quello che ci aspetta. La pista è immacolata, risparmiata dalle orde di sciatori domenicali ormai da qualche fine settimana, allora ci immergiamo nel buio, bucato solo dalle nostre frontali il cui cono giallo si perde nel nero indefinito, a metà tra suolo e cielo. Sfumatura di una luminosità pastosa che unisce il bianco al nero. La salita mette distanza tra di noi, ognuno concentrato a vivere ogni nero istante come personale viaggio tra il soffice affondare dei piedi e il vago girare attorno della testa. Ubriachi, ci si sente come ubriachi e non si sa se per la gioia o la mancanza di punti di riferimento. Saliamo lasciando un binario, in fila indiana, rotaie senza inizio né fine, fino a quando il pendio spiana e neanche la salita aiuta più ad orientarsi, poi l'occhio che ha fatto abitudine al buio riconosce segno e si orienta. Riprendiamo la salita accompagnata da urla che il vento porta in giro e sparge, quasi a seminare felicità, raccontare storie, urla per ritrovarsi, per non perdersi. La salita aumenta così come il freddo e dopo poco ci ricompattiamo, quasi a scaldarci; poi, quasi d'improvviso, si cambia versante, svalicando al di là di un dosso e il vento mi investe e sbatte a terra, forte che sembra voglia strapparmi di dosso vestiti e zaino, a ricoprirmi di neve leggera e farinosa, appena appoggiata; mi fermo e aspetto raso terra i due che non arrivano. Chiudo gli occhi perchè la neve adesso è come spilli e non vedo più niente, quando li riapro continua il buio, solo una lampadina di tanto in tanto compare tra le raffiche di neve, non esistono suoni che arrivano alle orecchie, solo il rumore del vento. Mi avvicino a loro, a terra, urliamo di scendere ma non sappiamo tornare indietro, non vediamo, non possiamo tenere occhi aperti; solo a tentoni riusciamo a indietreggiare, toccando neve che adesso è solo fredda e pungente, torniamo sull'altro versante, più protetto, a occhi chiusi, scivolando col sedere. Di là ci vediamo l'un l'altro, lo spavento mai visto sulla faccia dell'amico ci è da specchio per il nostro e capiamo. Ancora al buio scendiamo su quella stessa neve di nuovo immacolata, capace di raccontare un'altra storia.